Federico de Roberto
Presentare Roberto Rimini al pubblico catanese potrebbe essere ufficio del tutto inutile; perché, se il valente artista è nato a Palermo – trentott’anni or sono – a Catania fu portato bambino, di Catania apprese la parlata, a Catania cominciò i suoi studi, e qui tornò dopo averli compiuti, e qui vive e lavora ed espone e vuol morire, tanto affetto porta a questa città che considera come sua vera patria. Ma se egli è fra noi noto a tutti e da tutti stimato, la grande modestia gli ha sempre impedito di parlare di sé, della tenacia della sua volontà, della severità della sua preparazione, della predilezione che i suoi maestri ebbero per lui: non sarà pertanto fuor di luogo, sulla prima pagina di quest’albo dei nuovi dipinti che egli mette in mostra nella maggior sala del Palazzo comunale, ragionare un poco di lui.
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Roberto Rimini fu portato alla pittura da una di quelle vocazioni native, ardenti e incoercibili che in ogni tempo ed in ogni disciplina sono la prima condizione per raggiungere l’eccellenza. La sua famiglia, sperando che facesse l’ingegnere, l’avviò agli studii tecnici; ma fra quanti insegnamenti furono impartiti all’adolescente uno solo lo appassionò: quello del disegno. Il disegno geometrico e d’ornato non poteva tuttavia bastare al suo bisogno di riprodurre gli aspetti delle cose, la varietà delle forme viventi, la mutabile espressione della figura umana; talché un bel giorno del suo sedicesimo anno egli disse addio alla matematica, alla fisica e alla chimica, per andarsene, per fuggirsene quasi, a Napoli, dove si ascrisse all’Istituto di Belle Arti.
Una grande fortuna lo aspettava lassù: quella di trovare fra i maestri Stanislao Lista, il poderoso scultore che aveva plasmato il leone ferito nel monumento ai Martiri partenopei. Questo spasimato adoratore della Forma era un disegnatore di classica perfezione: sotto la sua guida il giovanetto conseguì i primi profitti, ma comprese prima di potersi misurare col vero.
Inopinatamente, un’incresciosa circostanza gl’impedì di trarre maggior partito dal sagace insegnamento del Lista: la confusione, il disordine, il decadimento dell’Istituto napolitano dopo la morte di Domenico Morelli, il glorioso Maestro che gli aveva acquistata una rinomanza nazionale. Se vi fosse rimasto mentre le condizioni ne erano deplorevolmente mutate, lo studente avrebbe ingannato, prima che gli altri, se stesso; e la serietà dei suoi proponimenti fu dimostrata dalla risoluzione di cercare una più severa ma più profittevole scuola. Così egli decise di passare all’Accademia veneziana, dove presto si meritò di esser considerato da Ettore Tito, l’illustre autore della Nascita di Venere, della Gómena, della Pescheria, come uno dei suoi migliori allievi. Sei anni durò il laborioso tirocinio, durante il quale Roberto Rimini apprese dal maestro il segreto della pittura in piena aria; ma l’occhio avvezzo ai fulgori del sole isolano, sulla terra solcata dalle fiumane dei fuochi sotterranei, mal si adattava alle diafane sfumature del paesaggio lagunare.
Superato l’ultimo corso, il giovane diplomato, anelante di tornarsene in patria, avrebbe potuto appagare la segreta sua brama; eppure volle imporsi ancora un’altra prova, passare per un altro periodo di liberi studi di perfezionamento, e andò a compierli nel maggior museo d’Italia e del mondo: a Roma. Durò un anno il nuovo esercizio, verso la fine del quale lo storico dell’arte italiana – non occorre nominare Adolfo Venturi – ebbe occasione di vedere i disegni del Rimini e ne lodò la non comune potenza. Col viatico di questo giudizio, l’artista tornò a Catania per mettersi alacremente a comporre; sennonché, preso dapprima dalla leva militare come soldato del Genio, la guerra lo tenne poi sui campi dell’onore dal primo all’ultimo giorno. Fu in quel tempo che, dall’alto d’un Dracken, il soldato-pittore eseguì un’impressione del golfo di Trieste: offerta dal Comando del Corpo d’Armata al Re, Sua Maestà la gradì moltissimo, oltre che come presagio di vittoria, anche per la potenza della sintesi. Congedatosi all’armistizio come tenente del I Reggimento del Genio, Roberto Rimini poté finalmente ridursi nella sua Catania, dove iniziò una nobile fatica della quale di tanto in tanto è venuto esponendo i frutti.
La mostra di tre anni addietro fu la sua maggiore affermazione, e gli procacciò larghi e unanimi consensi: tutti i quadri esposti trovarono compratori. Chi li rammenta e li paragona ai presenti può nondimeno accertare i progressi che l’incontentabile lavoratore ha voluto e saputo compiere. Egli ha cercato un altro orizzonte: la maggior parte delle prime tele rappresentavano tipi e scene della terra etnea, colti durante un fecondo soggiorno nelle alte solitudini di Milo, in compagnia del suo e nostro indimenticabile Natale Scalia; oggi egli si è fermato sul minor Bosforo dove Morgana opera i suo prestigi. La vita di quei campi e di quelle casette fra collina e marina è qui espressa quasi sempre nelle maliose trasparenze d’un’atmosfera dove le stesse ombre acquistano una lor propria luminosità. E ancora quando il pittore ritrae qualche interno, come in Pace, come in Candore, egli ha bisogno di spalancare una finestra o una porta per lasciar che l’aria libera entri e circoli e bagni e rinfreschi tutte le cose, per poter volgere uno sguardo all’alto cielo ed al vasto mare. Un altro innegabile pregio dell’arte di Roberto Rimini è la solidità della costruzione, la precisione delle linee del disegno: prima del colore, che è la veste delle cose, egli volge lo studio più diligente alla forma. E l’occhio suo attentissimo sa cogliere e fermare anche gli aspetti più fugaci del vero, come in Al sole, dove lo slancio della giovane che lotta col vento per distendere il lenzuolo del bucato sull’alta corda fermata tra ramo e ramo è sorpreso con la precisione di una istantanea. Il colore – un colore – trionfa nella Sinfonia verde, dove la monocromatica clorofilla d’una rigogliosa cucurbitacea passa per infiniti toni e gradazioni e sfumature, come una frase musicale si svolge e rivolge ed avvolge in infinite variazioni. Altrove, come in Mostra vegetale, la festa delle tinte d’una naturale tappezzeria floreale distesa sopra un rustico muro ha finezze di ricamo. L’espressione umana è enigmatica del Ritratto, ha una dolorosa passionalità in Maddalena e…
Ma questo quadernetto non ha né potrebbe avere lo scopo di preoccupare il giudizio del pubblico. Qui si è voluto soltanto rammentare che Roberto Rimini, per la serietà della sua preparazione e per la nobiltà dei suoi intendimenti, merita la più simpatica attenzione dei visitatori, ai quali si è voluto anche offrire un ricordo della mostra odierna, associandoli anche a un’opera buona.