Porta a compimento gli studi tecnici ai quali lo aveva avviato il padre con l’intento di rendere più agevole il proseguimento con quelli di ingegneria.
Ma già in quegli anni acerbi, attratto da matita e pennelli, aveva iniziato a sperimentare le proprie attitudini, ancora forse come un gioco, ma già il suo preferito, durante gli ozi e le scorribande in campagna, intorno alla villa di Barriera del Bosco dove la famiglia trascorreva i mesi estivi.
Decide così di fare di questo diletto il lavoro della sua vita e, riuscendo a superare l’iniziale dissenso del padre, ottiene di iscriversi all’Istituto di belle arti di Napoli.
In uno scritto autobiografico (note estemporanee e mai rese ufficiali) rievocando quell’iniziale dissenso («uno scossone nella serenità della mia famiglia») così precisa: «mio padre non si oppose decisamente, solo temeva maledettamente che le mie attitudini fossero men che mediocri … e l’idea di un fallimento gli faceva paura». Quel «maledettamente» (cancellato poi da un tratto di penna, ma perfettamente leggibile) induce ancora a considerare come quella scelta si sia configurata non come facile evasione, ma come una sfida che dà ragione dei lunghi anni di studio ai quali si dedicò.
A Napoli si ferma per due anni come alunno nella sezione diretta dallo scultore Stanislao Lista. Qui ha modo di educare la naturale disposizione al disegno incardinandola in una ben definita strutturalità
Questo primo tirocinio napoletano non è menzionato nei suoi ricordi, forse perché considerato una ‘preistoria’; ma da tale preistoria deriva l’eredità di una metrica compositiva su cui si leverà poi il canto dei colori e della luce, e il suggerimento ad incanalarsi nel solco del realismo del secondo Ottocento.
Rari documenti risalenti a questa fase sono Caldarroste, vera scena di genere, e il Ritratto del fratello Mario.